di Giada Scalzi, Alice Tesi e gli studenti della IV C
Al termine dell’incontro di lunedì 21 novembre al Piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, a noi studenti della classe IV C indirizzo linguistico dell’istituto Pacini è stato concessa la straordinaria possibilità di una breve intervista a teatro vuoto con il critico letterario Massimo Onofri. Due timide ed emozionate studentesse sono salite sul palco accanto all’ospite d’onore della mattinata, che con la sua pacatezza ed eloquenza da professore universitario, si è gentilmente offerto di rispondere alle domande.
Perché il ruolo di critico le sta particolarmente a cuore, e cosa significa per lei?
Comincio dicendo che in questo paese c’è bisogno di critica. Essa aiuta a farci rendere conto del mondo e di noi stessi con validi argomenti. Basti pensare che la questione dell’argomentazione inizia con la filosofia greca, fra Platone e Aristotele, i quali si occupano di retorica e di sapere. Nella critica la conoscenza non è rappresentata dalla scienza né dalle opinioni: così come il terreno della vita è incerto, allo stesso modo lo è la critica. Essa mette tutto in discussione, in modo da cercare una dimensione che sia intersoggetiva, un luogo di equilibrio in cui entriamo in rapporto con gli altri. La politica ad esempio, è la continua ricerca del consenso con gli argomenti. La critica in soldoni, è la disciplina più nobile, poiché ci insegna ad avere uno scambio con l’altro, ma in modo sempre valido e rispettoso. Spesso si cambia idea, ciò che conta è l’autorevolezza degli argomenti, non di chi li pronuncia.
È stato chiarissimo, la ringrazio. Ogni critica impone degli interrogativi. E’ importante farsi domande?
Qualche tempo fa, rispondendo a Marzullo nel corso del programma Sottovoce, ho spiegato l’importanza di porsi domande. Una delle tante che mi pongo ogni giorno, e che credo sia la più rilevante fra tutte, è: Sei felice? A mio parere ogni uomo ha un bisogno di felicità almeno pari al suo bisogno di infelicità. Purtroppo col passare del tempo, le persone smettono di farsi domande, soprattutto gli adulti. In questo modo si perde il senso che si ha di se stessi, e anche dell’altro.
Secondo lei perché gli adulti non si fanno più la domanda “Sei felice“?
Spesso si confonde l’adultità con la maturità, ma ciò non è affatto scontato. Essa può essere la dimensione più puerile. Non esiste un’età specifica in cui si diventa adulti, si può avere trenta, quarant’anni ed essere ancora adolescenti. Per i giovani è diverso: essi passano un periodo che è spesso pieno di dolore, di preoccupazioni, e questo è importante. Bisognerebbe ricordarsi sempre di considerare il dolore come uno stimolo, un modo per cambiare, per darsi uno scopo, per vivere degnamente, senza smettere di interrogarsi. Tutti hanno diritto a vivere una vita intensa.
Perché gli adulti non si fanno più domande?
Perché sono abitudinari. L’abitudine è la conseguenza di non farsi più domande; essa piano piano porta a morire dentro.
Cosa significa per lei, vivere una vita intensa?
E’ l’esatto opposto di vivere indegnamente. Nessun istante dovrebbe essere andato perso. Vivere senza la consapevolezza che tutto finisca un giorno, porta al concetto di cui parlavo prima, ossia l’abitudine; essa non è la causa della sclerotizzazione dell’adulto, ma è la conseguenza di un’esistenza che non è assetata di risposte.
Cosa può aiutarci a non essere schiavi dell’abitudine?
Anche un verso può salvarci. A questo proposito, credo che gli studenti dovrebbero imparare poesie a memoria. Del resto dobbiamo capire che la letteratura non è un bene astratto della vita, ma uno zainetto che ci serve per conquistare il mondo.